Buon pomeriggio. Saluto e ringrazio per la loro presenza le autorità civili e militari. Grazie all’amministrazione comunale che mi ha affidato questo compito. Grazie a tutti gli intervenuti. Un saluto particolare al professor Vittore Bocchetta che è stato rinchiuso in questo carcere nel tempo in cui la civiltà fu sul punto di soccombere alla follia e alla violenza, reduce da Flossemburg ed Hersburck, intellettuale, artista – autore del cipresso della memoria che sta dietro questo muro – insostituibile custode della memoria, maestro e amico carissimo.
Più di 70 anni fa questo portale che costituiva l’accesso al carcere giudiziario degli Scalzi, così era comunemente noto, fu testimone di un’impresa che ancora a distanza di tanti anni ci appare come straordinaria e sicuramente memorabile. Nel 1944 Verona era sottoposta a un terrorizzante regime di occupazione da parte delle truppe naziste, che avevano installato al palazzo dell’INA il comando del BdS da cui dipendevano tutti i reparti della Gestapo operanti in Italia, e gli uffici che gestivano la deportazione dei prigionieri politici e degli ebrei catturati anche dai servizi di sicurezza dei fascisti di Salò. Si trattava di un apparato repressivo di formidabile potenza ed efficacia; non c’era nessuna possibilità di affrontarlo direttamente, in campo aperto, data l’enorme disparità delle forze contrapposte. Infatti, almeno fino alla primavera del 1945, pochi, male armati, inseguiti, fucilati, impiccati, deportati erano i partigiani non i cosiddetti Ragazzi di Salò. Bisogna sempre tenere conto di questa situazione ogni qual volta si sottolinea la fragilità della Resistenza veronese rispetto al vigore operativo manifestato dai gruppi partigiani attivi in altre città. Alzare la testa a Verona era tutt’altro che facile; scegliere di farlo significava disporre della forza morale propria di chi è disposto non solo ad affrontare i pericoli propri dello scontro armato, ma pure a sostenere il terrore freddo e paralizzante della Gestapo, della polizia politica, della tortura, della deportazione in luoghi di tormento e di morte. Nel luglio del 1944 sei patrioti del GAP il Gruppo di Azione Patriottica cittadino, Lorenzo Fava, Danilo Preto, Vittorio Ugolini, Emilio Bernardinelli, Berto Zampieri e Aldo Petacchio, accantonando dubbi, incertezze e paure organizzarono un’irruzione in questo carcere riuscendo a liberare Giovanni Roveda, un prigioniero di grande prestigio, un sindacalista comunista, un antifascista storico che aveva già scontato 17 anni fra carcere e confino e che era ritenuto figura di primo piano tanto dai fascisti, quanto dai nazisti. Fu un successo pagato a caro prezzo: due patrioti persero la vita, Roveda stesso rimase gravemente ferito, ma l’impresa raggiunse il suo obiettivo. Ho ritenuto opportuno riassumere in poche parole la vicenda ben nota ai veronesi e già descritta in varie pubblicazioni, per consentire a coloro che sono qui per la prima volta di conoscere le ragioni per le quali ogni anno ci ritroviamo agli Scalzi per celebrare e ricordare con Fava, Preto e gli altri, quella minoranza di italiani che con il loro sacrificio cercarono di riscattare 20 anni segnati dal servilismo, dalla violenza e dalla manipolazione delle coscienze. Siamo in tanti, parafrasando molto modestamente Winston Churchill, a dovere tanto a così pochi.
Il 17 luglio 1944 l’impresa fu portata a termine, ma tutto era iniziato alcuni mesi prima, credo sia opportuno precisarlo. Roveda fu rinchiuso agli Scalzi il 6 gennaio 1944. Il carcere era un luogo ben conosciuto e aveva ospitato sin dalla fine del 1943, e ancora ospitava agli inizi del 1944, personaggi di primaria importanza: agli Scalzi erano stati incarcerati in attesa del processo i gerarchi che il 25 luglio del 1943 avevano votato l’O.d.G. Grandi, determinando la defenestrazione di Mussolini, Ciano, De Bono, Gottardi, Marinelli, Pareschi e Cianetti; cinque di essi saranno fucilati l’11 gennaio nel poligono di Forte Procolo. L’unico risparmiato, Cianetti, era rimasto nelle celle degli Scalzi. Ma qui erano stati rinchiusi anche importanti ufficiali superiori, generali, ammiragli, accusati di non essersi immediatamente schierati a fianco dei nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre; e pure alcuni funzionari e gerarchi sospettati di non avere difeso il regime dopo il 25 luglio. Faccio qualche nome: furono condotti in questo carcere gli ammiragli Campioni e Mascherpa, poi trasferiti a Parma, processati e fucilati, i generali Malaguti, Moizo, Robotti, Rosi, Fortunato, Scuero, Tarabini, Gariboldi, Caracciolo di Feroleto, Vecchiarelli, l’ex segretario del PNF Achille Starace, l’ex ministro dei lavori pubblici Benini. Parecchi di essi erano stati catturati dai tedeschi e poi riconsegnati ai fascisti di Salò che li concentrarono qui, agli Scalzi. Come ho detto, si trattava di personaggi molto importanti, ma non erano essi, ormai ridotti all’impotenza e privi di collegamento con il movimento antifascista, a suscitare preoccupazione nei nazisti; ben maggiori erano invece i timori destati dal sindacalista Giovanni Roveda, antifascista indomito, costante punto di riferimento per i gruppi che si erano mobilitati in armi contro l’occupante nazista e il loro alleato di Salò. Il pericolo rappresentato da un personaggio del calibro di Roveda teneva desta l’attenzione del nazisti, i quali a un certo punto iniziarono a diffidare dei sistemi di vigilanza del carcere veronese e quindi nel marzo 1944 il comando del BdS del palazzo INA, presumibilmente la sezione della Gestapo, propose al questore di Verona Tognon di deportare in Germania Roveda dove sarebbe stato meglio custodito e controllato. Il questore sarebbe stato ben lieto di liberarsi di questa presenza ingombrante; sicché riferendo per iscritto al capo della Polizia Tamburini la proposta dei tedeschi espresse il suo parere favorevole al trasferimento del prigioniero. Tamburini rispose seccato a Tognon affermando che dal carcere di Verona non era mai scappato nessuno e che Roveda doveva quindi rimanere in mani italiane; e così fu. Roveda aveva 50 anni; è evidente che non sarebbe sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti. Si può dire che in quella circostanza il capo della polizia fascista, suo malgrado, salvò la vita al comunista Giovanni Roveda,.
La lettera di Tognon a Tamburini é del 10 marzo 1944. I partigiani veronesi ancora non sapevano che Roveda era incarcerato agli Scalzi, perché, quando fu arrestato, il sindacalista venne registrato con il falso nome di Giovanni Esposito, evidentemente per impedire agli antifascisti di stabilire contatti con un leader carismatico e soprattutto per escludere ogni tentativo di liberazione. Solo in maggio la Resistenza veronese seppe della presenza di Roveda nel carcere cittadino e immediatamente vennero elaborati vari piani per giungere alla liberazione di un uomo che era considerato un simbolo della lotta al nazifascismo. Si trattava di un’impresa rischiosissima, giudicata tale dallo stesso Roveda, che aveva infatti sconsigliato di attuare un intervento diretto, forse prevedendo il sanguinoso esito di una irruzione in armi nel carcere. Anche i sei gappisti che si erano dati volontari sapevano che le probabilità di perdere la vita o di cadere in mano nazista erano altissime; tuttavia non esitarono. Perché lo fecero? In nome di quali ideali? Sicuramente perché sapevano di combattere per una giusta causa, volta a rigenerare la Patria nel segno della democrazia. Ma il valore assoluto per il quale, in ogni epoca, gli uomini migliori si sono battuti e sacrificati è sempre lo stesso, è quello che 700 anni fa ispirò a Dante versi che ancora oggi coinvolgono e commuovono: «Libertà va cercando, ch’è si cara come sa chi per lei vita rifiuta». Libertà cercavano Fava, Preto, Petacchio, libertà cercavano tutti i veri patrioti; la libertà di coscienza, parola e pensiero cancellata dal regime fascista con il sostegno o la colpevole inerzia di milioni di italiani. Sapevano benissimo che a liberare l’Italia non sarebbero stati il loro coraggio e le loro poche armi, bensì gli eserciti Alleati che stavano risalendo la Penisola. Ma questo rende ancora più nobile la loro scelta, perché, pur sapendo di non essere determinanti, non si limitarono ad attendere una libertà concessa in regalo da altri, come fecero in tanti, ma decisero di contribuire alla sua riconquista con l’azione, e se necessario con il sacrificio. Come sappiamo, Preto morì a seguito dello scontro a fuoco che seguì l’assalto. Fava, catturato ferito, fu torturato dai fascisti, ma non perse coraggio e lucidità e si assunse la personale responsabilità di tutti gli attentati compiuti a Verona nei mesi precedenti, determinando in tal modo la liberazione di un gruppo di ostaggi imprigionato per intimidire e disarmare eventuali altri tentativi di sabotaggio. Fava fu poi fu consegnato ai tedeschi che vollero occuparsi direttamente della sua fucilazione a Forte Procolo.
La liberazione di Roveda fu uno scorno durissimo per i fascisti che si scatenarono immediatamente nella caccia ai responsabili e ai favoreggiatori. Vi furono arresti, perquisizioni, interrogatori, torture. Ce lo raccontano i documenti emanati dalle autorità fasciste e oggi consultabili. Fra i fascisti, a pagare per tutti fu il questore Tognon, che venne sostituito da uno squadrista di sicuro affidamento, Vinicio Fachini. Conscio della sua primaria responsabilità, Tamburini, il capo della Polizia che aveva rifiutato di consegnare Roveda ai tedeschi, il 24 luglio scrisse una lettera di scuse al prefetto di Verona Bogazzi.
Prendendo spunto dalla nobile figura di Lorenzo Fava che era stato ufficiale degli alpini, vorrei approfittare di questa cerimonia per dedicare un omaggio alla memoria dei membri delle Forze armate, dei militari di tutte le Armi che parteciparono alla lotta di liberazione nazionale. Credo sia importante farlo, perché sino ad oggi il contributo che in tutto il territorio occupato diedero alla Resistenza i militari italiani è stato molto sottovalutato e comunque non adeguatamente studiato con specifiche ricerche di portata nazionale, sul modello dell’Atlante che ha censito le stragi operate in Italia dai nazisti, peraltro finanziato dal governo tedesco. Di fatto, negli ultimi mesi del 1943, la grande maggioranza dei gruppi partigiani che si costituirono nelle provincie italiane riuscirono ad organizzarsi in nuclei dotati di capacità operativa solo grazie alla presenza di ufficiali, sottufficiali e militari dell’ex Regio esercito. Per Verona potrei fare un lungo elenco. Desidero però citare almeno due militari veronesi, entrambi poco conosciuti, due per ricordarne tanti; il primo, il tenente dei Lancieri di Novara Andrea Luigi Paglieri nato a Verona in Piazza Cittadella. Paglieri fu una nobile figura di intellettuale e di militare: Medaglia d’oro alla memoria, Medaglia d’argento e Croce di ferro tedesca sul fronte russo, trasferito nel Servizio permanente effettivo per meriti di guerra. Dopo l’armistizio entrò nelle formazioni partigiane di G.L. Nella primavera del 1944 operava in provincia di Cuneo con ruoli di comando. Catturato dai fascisti venne fucilato dopo essere stato (leggo dalla motivazione della medaglia d’oro riportata nel suo Stato di servizio) «martoriato con le più inumane sevizie». Aveva 26 anni.
Il secondo è un carabiniere veronese, la cui eroica vicenda è emersa solo dopo 70 anni grazie alle carte conservate negli archivi militari e civili. Si chiamava Giovanni Battista Vivaldi; era nato a S. Ambrogio di Valpolicella nel 1901 e come tutti i carabinieri dopo l’8 settembre venne inquadrato nella Guardia nazionale repubblicana della Repubblica di Salò. Ma, come osservava il comandante della Guardia Ricci «i carabinieri sono sempre carabinieri»: Ricci intendeva dire che i CC erano inaffidabili in quanto legati da giuramento al re. I fascisti li detestavano e dal loro punto di vista con ragione, perché in maggioranza i CC. non collaboravano, sabotavano gli ordini dei tedeschi e in molti passavano nelle file della Resistenza. Giovanni Vivaldi fu uno di questi; nel 1944 aveva 43 anni, moglie e figli. Come tanti avrebbe potuto abbandonare la divisa della Gnr, darsi alla macchia e attendere tranquillamente la fine di tutto. E invece scelse di scendere in campo e di partecipare in prima persona alla costituzione di un piccolo gruppo di partigiani sul Monte Pastello, a fianco del capitano di Savoia Cavalleria Federico Serego degli Alighieri, anche lui reduce dal fronte russo come Paglieri. Individuato e arrestato, Giovanni Battista Vivaldi, carabiniere e partigiano e quindi doppiamente colpevole agli occhi dei fascisti, non aveva scampo. Dopo essere stato torturato dai militi dell’ufficio politico dell’Ispettorato regionale della Gnr, venne processato e fucilato nei pressi del Cimitero monumentale il 14 novembre 1944. Qualche anno fa il suo sacrifico fu ufficialmente riconosciuto e alla figlia venne consegnata presso il Comando provinciale dei CC. la Croce al merito di guerra assegnata alla memoria del padre.
Concludo dedicando un pensiero riconoscente ai 23 militari volontari, tutti specialisti in comunicazioni e sabotaggi che operarono qui al nord, in territorio occupato, e che dopo la cattura passarono per le carceri di Verona per essere torturati e interrogati prima di essere trasferiti nel campo di Via Resia a Bolzano, dal quale furono prelevati il 12 settembre 1944 e assassinati dai nazisti con un colpo alla nuca nelle scuderie della caserma Mignone. Io ho conosciuto la loro storia grazie a Vittore Bocchetta che incontrò 6 di loro nel campo di Bolzano e così li descrisse nel suo libro Quinquennio infame: «Erano sei giovani eccezionali, sei campioni di umanità dotati di quelle virtù che sembrano predestinate a guidare i popoli. Forti, sani e colti, parlano ognuno non meno di quattro lingue. Sono votati alla morte e sono venuti dal mare per liberare la nostra gente». Oggi i loro resti riposano nel cimitero militare di Bolzano; c’è una modesta lapide a ricordare i loro nomi, alcuni sono sbagliati, troppo poco.
A Lorenzo Fava, a Danilo Preto, a Vivaldi, a Francesco Viviani, a tutti i caduti della Resistenza è dedicata la nostra commemorazione; per non dimenticare, per cercare di opporsi a quella “malattia senile della democrazia” di cui parla Marco Revelli e che sembra aggravarsi ogni giorno che passa. Viva La Resistenza, Viva l’Italia.